Ci sono Matti per le Matte che le Matte hanno incontrato anni fa e poi, grazie ai social hanno ritrovato. E’ stato così per Mario Bonanno, il nostro ospite di oggi. Lo abbiamo fatto sudare perché gli abbiamo chiesto di rimpicciolire il post molto più lungo di quello che vedete qui 🙂 Scrittore e giornalista esperto del panorama musicale italiano non ci ha deluso. Speriamo di rileggerlo presto. A voi!
Il doppio regno di Paola Capriolo (Bompiani, 1991) ha inciso sulla mia vita di lettore come il segno della croce su quella di chi crede. Beh, più o meno. Si tratta di un romanzo di genere fantastico, di quelli scuri scuri però, claustrofobico. Un romanzo rilkeiano (sin dal titolo), ma tra le righe c’è abbastanza anche della Montagna incanta di Mann. Un romanzo mirabilmente assiso su un ideale piano obliquo, posto tra metafisica e ontologia. Dentro vi scorre (?) un tempo immobile (un non-tempo), e dunque Il doppio regno accenna anche alla stasi esistenziale e – come spesso nei romanzi di Paola Capriolo – all’attrazione per il nulla e per l’abisso. L’ho letto in due giorni d’un fiato.
Molto semplicemente ci sono finito dentro e non ne sono uscito più. Nemmeno quando ho finito di leggerlo. Nel senso che non ho potuto fare a meno di ritornarci. Spesso. L’incipit è surreale: in un’alba livida d’autunno, mentre passeggia sul litorale di un‘anonima cittadina, una donna vede montare dal mare un’onda gigantesca. Fugge, mentre intorno a lei il paesaggio viene inghiottito per gradi. Scampata (?) alla morte, trova rifugio all’interno di un edificio labirintico: uno strano albergo senza insegne né clienti: da quel luogo – inquietante e protettivo al contempo – non riuscirà più a venire fuori. Le stazioni del suo progressivo soggiacere all’albergo (all’interno del quale sembrerebbe bandito ogni contrasto) si alternano nel romanzo a barlumi di ricordi risalenti a un passato nebuloso.
Un passato in cui l’esperienza personale della donna si confonde con proiezioni inconsce, a un passo dall’onirismo.
La quiete vagamente funerea dell’edificio dove tutto obbedisce a un‘immutabile, reiterata, liturgia e d’altro canto la minacciosa imprevedibilità della vita da cui continuano a giungerle distanti richiami -, si prospettano agli occhi della protagonista come i poli antitetici del “doppio regno”; delimitando l’itinerario straniante che da una sorta di sofferta iniziazione giunge sino al baratro, al collasso interiore.
L’onda segna – dunque – l’inizio. Il grado zero, la fine del tempo conosciuto e il cominciamento di un tempo nuovo. L’onda cancella (monda?) il passato della donna (la sua memoria affettiva, i suoi ricordi) spingendola verso il presente di placida sonnolenza, di beatitudine artificiale, dell’albergo. Qualcosa di inquietante ma anche di seducente, cui ci si abbandona giocoforza. Fuor di metafora l’onda è il pretesto ontologico che la donna, in fondo, sta aspettando per lasciarsi alle spalle un vissuto ingombrante. Oscuro (forse un bimbo annegato nel corso di una gita in barca, della cui morte si sente responsabile? Forse un uomo tradito e successivamente abbandonato?). Onda e albergo sono il primo, importante, spunto di lettura di un romanzo, sin dal titolo, costruito intorno al tema della doppiezza: prima/dopo, passato/presente, oblio/memoria, tempo/non-tempo, libertà/prigionia, interno/esterno. Come il Tenente Drogo de Il deserto dei tartari buzzatiano, l’eroina de Il doppio regno finirà con l’arrendersi a una condizione di stallo (di scacco) ontologico di cui l’albergo è artefice e motore immobile, sin da subito connotato dalla Capriolo come entità reificante.
Una sorta di dimensione sospesa, infinita, ultramondana, all’interno della quale i giornali non riportano date (giornali “quasi di oggi” sono le sole letture concesse nell’edificio); le finestre appaiono cieche (“mi accorsi però che neppure lì vi erano finestre vere e proprie, ma soltanto un rettangolo di vetro smerigliata, piccola e irraggiungibile”); mancano gli orologi, e il solo retaggio del tempo esterno (l’orologio della donna) è andato rotto durante la fuga. La donna vive (subisce?) quindi il senso di straniamento tipico della deprivazione sensoriale, costretta a confrontarsi con un passato e un tempo opacizzati, cui si volge, di tanto in tanto, come attraverso una lente focale rovesciata, lontanissima. La dilatazione temporale che detta il ritmo del romanzo, può essere ulteriormente tradotta in senso psicanalitico come evidenza di una scissione interiore vissuta con sentimenti di ambivalenza (di fascinazione e inquietudine, di allegrezza e afasia). Espressioni di una frattura intrapsichica destinata a sfocare nella perdita d’identità.
In ultima analisi, anche la luce interpretativa de Il doppio regno è una luce fosca. Traslata. Posta lungo la linea d’ombra del perturbante. E dell’indicibile. Per tutti questi motivi (e per un mucchio di altri ancora, disseminati tra testo e sottotesto) il romanzo è un romanzo che inquieta. E fa pensare. Vi consiglio di recuperarlo al più presto e di sbirciarci tra le pagine senza ulteriori se e senza ma. Prendetemi alla lettera: da Il doppio regno non ci si libera e non si viene fuori facilmente.
(Il doppio regno/Paola Capriolo/Bompiani/ pp 176/ € 7,00)
Mario Bonanno