In questo ultimo periodo, oltre all’infilata estiva di “libri al quadrato” di cui presto ricomincerò a raccontarvi (anzi in qualche modo lo sto già facendo), per varie ragioni ho letto anche tantissima saggistica acquistata e dimenticata o che mi era stata regalata e non avevo ancora avuto modo di leggere. Ovviamente vi sto risparmiando la saggistica estremamente settoriale che non penso incontrerebbe l’interesse dei più, ma fra i tanti titoli che ho letto ce ne sono diversi che – a mio avviso – si pongono come piacevolissime letture, indipendentemente dal settore editoriale in cui è possibile collocarle. Fra queste c’è sicuramente L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno resi umani di Jonathan Gottschall.
Il punto di partenza è che nessun altro animale dipende dalla narrazione come l’essere umano. Ci sono segni di finzione e di narrazione fin dai primordi dell’umanità, tanto da poter dire che si tratti di un comportamento innato. Del resto, basta guardare un bambino che giochi al “facciamo finta che” per capire che si tratta proprio di un istinto primordiale.
La domanda che si pone l’autore, però, è “A quale scopo?”.
Le basi per spiegare come si sia sviluppata questa strana abilità, vengono tanto dagli studi del letterato, quanto dalle più avanzate e recenti ricerche di biologia, antropologia, neuroscienze, scienze cognitive, pedagogia e psicologia evoluzionistica.
Passiamo più tempo immersi in un universo di finzione che nel mondo reale (nei libri, nei film, nelle serie tv). Poniamo al centro della nostra esistenza cose che non esistono… Insomma, cerchiamo costantemente un’Isola che non c’è. Gottschall evoca i tangibili vantaggi dei mondi fantastici (a confronto con il mondo reale) e spiega che raccontando storie i bambini imparano a gestire i rapporti sociali, che viaggiando con la fantasia esploriamo mondi alternativi che sarebbe troppo rischioso esplorare davvero un prima persona (e che tutte queste esperienze, però, tornano molto utili nella vita reale), che attraverso la finzione cementiamo una morale comune che permette alla società di funzionare col minimo possibile di contrasti, che la letteratura ci cambia fisicamente (e in meglio).
Insomma, giocare a fare il pirata, sognare di volare, scrivere un romanzo (o leggerlo), partecipare a giochi di ruolo (piccoli o di dimensione planetaria su internet)… Leggere, ascoltare, scrivere, raccontare, sognare, delirare, recitare… Sono tutte attività che possono essere poste sullo stesso piano, che possono essere accomunate, imparentate. Tutte espressioni di un'”ossessione” prettamente umana, concretizzatesi in varie forme (tutte capaci di liberarci dai vincoli dello spazio e del tempo), tutte esperienze di mondi nuovi che obbligano a uno sforzo cognitivo ed emotivo imponente (bisogna immaginare, ricostruire i dettagli e risolvere la grande quantità di problemi, nemici e pericoli di cui sono pieni questi mondi fittizi).
E allora la domanda diventa, ma se questo processo è psicologicamente così dispendioso, perché non è stato eliminato dalla selezione naturale? E la risposta è che deve esserci un senso se questo e rimasto come tratto distintivo umano, addirittura potenziato dalle nuove possibilità offerte dal mondo contemporaneo (internet, la televisione e i reality show…). Tutto (anche, anzi soprattutto, le difficoltà che è necessario superare e i nemici che è necessario vincere nei giochi, nei romanzi e persino nei sogni) lascia pensare che gli sforzi cognitivi ed emotivi siano utili, se non addirittura necessari. Le storie sarebbero una palestra sicura, un’antica e potente realtà virtuale, dove fare esperienza di situazioni che potrebbero presentarsi nella vita reale, soprattutto in tema di gestione dei rapporti personali (visto oltretutto che il condividere narrazioni rende più unita una comunità e promuove lo spirito cooperativo all’interno di un gruppo), perché simulano i grandi dilemmi della vita umana.
Tutto, quindi, sarebbe storia, narrazione. La pubblicità, il marketing, l’intrattenimento, la cronaca, lo sport, i discorsi di un leader politico… E proprio per questo, ogni capitolo si apre con un racconto (vero o inventato, privato o di dominio pubblico), un’antologia che mostra anche come il narrare, nel tempo abbia preso forme differenti adempiendo a funzioni diverse. Insomma, la narrazione prende un po’ le firme di un coltellino svizzero multiuso e “le storie sono per l’uomo com l’acqua per i pesci” (una frase che richiama Gianni Rodari e la sua posizione sulla lingua italiana… forse una di queste volte vi racconterò de La grammatica della fantasia e di altre sue opere che mi sono state regalate, in tempi recenti o quando ero solo una bimbetta).
In parole più complicate, in questo libro le teorie evoluzionistiche darwiniane vengono applicate alla filogenesi del narrare… Solo che detta così sembra solo una cosa complicata e astrusa. Mentre il volume di Gottschall è capace di mettere insieme piacevolezza di lettura e sostanza concettuale, e al di là di alcune affermazioni che possono essere ritenute frettolose, l’autore porta in Italia linee di ricerca ancora poco praticate.
C
(L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani di Jonathan Gottschall, Bollati Boringhieri, pag. 250, euro 22)