Parlare de La Grammatica della fantasia mi viene piuttosto difficile. Da un lato perché nutro un sentimento molto forte nei confronti di questo volume che pur essendo diventato fisicamente mio davvero solo recentemente (è uno dei regali che ho ricevuto per il mio onomastico), dall’altro perché l’ho sempre letto e utilizzato con una logica legata allo studio (in diversi modi, prima la maestra lo utilizzava con me e i miei compagni di classe, poi è diventato uno strumento di studio in libreria, infine all’università). Ma la mia copia, quella che è stata sempre e solo mia, adesso è tutta un’altra storia. Leggo il libro con una prospettiva differente, ma riesco anche a ricordare ogni singolo esperimento vissuto e costruito intorno a questo libro e ogni ricordo che è legato a questo capolavoro di Gianni Rodari.
Il volume è stato scritto nel 1973 e sulla quarta di copertina della prima edizione si leggeva l’intenzione dell’autore di ricercare le “costanti” dei meccanismi fantastici, di indagare le leggi dell’invenzione… In modo che tutti potessero fare uso del processo creativo, tutti potessero imparare a giocare con la fantasia. E il volume insegna proprio questo, insegna a lasciare spazio nella propria vita all’immaginazione e insegna anche il posto che deve avere a scuola o, meglio, più in generale nel processo educativo.
Una sorta di manuale per cucinare la propria fantasia, ma senza delle ricette preconfezionate, ma con tanti ingredienti, materie prime, idee, occasioni, riflessioni… Il tutto basato su un principio fondamentale e imprescindibile: credere nel potere liberatorio della parola. La verità, però, è che solo adesso capisco davvero: solo adesso quando vedo mia nipote che ridacchia davanti a una parola inventata e costruisce sopra un mondo, oppure inventa modi di dire che diventano come una formula magica e segrete tra lei e me, o mia mamma, o mia sorella. Ne palpo l’importanza solo adesso che vedo il piccolo Bubù ridacchiare quando esclamo “Sussi e Biribissi” e capisco lo fa ridere il suono, e la mia faccia mentre cielo dico, ma a me sembra quasi che intenda il lato umoristico contenuto in questo romanzo meno noto di Carlo Lorenzini, detto Collodi.
Conoscevo la carica liberatoria della parola, il valore dell’immaginazione, il valore educativo della fantasia, la 28… (basti pensare a Cenerentola e alla sua scarpina di cristallo, una scarpetta di vetro – verre – che in realtà era una scarpetta di pelliccia – veire – insomma, un errore di trascrizione che è diventato un classico della magia nelle fiabe). Ma solo adesso capisco la ricchezza che c’è in un errore, soprattutto in quelli dei bambini che sono costruzioni autonome per appropriarsi del mondo che li circonda. Insomma, secondo Rodari non solo sbagliando s’impara, ma sbagliando s’inventa. E, anche se so che è ancora presto per potere giocare con gli errori che farà Bubù, per potere costruire e inventare storie con le sue parole inventate… Vi giuro che non vedo l’ora.
Carla
(La grammatica è una canzone dolce di Gianni Rodari, Einaudi Ragazzi, pag. 204, euro 12,50)