Tornando da Milano, mi sono dedicata alla lettura di “La casa stregata” di Howard Phillip Lovecraft. Un racconto lungo (o un romanzo breve) che l’autore di statunitense ambienta nella sua cittadina natale: Providence. Lovecraft è considerato insieme ad Edgar Allan Poe uno fra i maestri del genere horror. E devo dire a buona ragione, visto che – a seguito della lettura precoce dei suoi racconti dell’orrore – da ragazzina, ho perso diverse notti di sonno. E il racconto in questione – che gli fu ispirato da una casa realmente esistente, «maledetta o nutrita di cadaveri», nella quale da bambino, insieme a i suoi coetanei spesso si trovava a giocare per vincere le proprie paure o dimostrare agli altri di non averne affatto – lo porta ai confini della fantascienza, alle sue origini.
La fine del racconto viene anticipata da Lovecraft stesso nelle prime pagine del racconto. Ma io non voglio fare lo stesso. E della trama, anzi, non voglio raccontate proprio nulla (anche perché in poco più di mezz’ora potreste regalarvi una lettura piacevolmente inquietante), sia perché la trama dovrebbe – credo – essere nota a tutti, sia perché un horror (come un giallo) è meglio non raccontarlo.
La casa stregata di cui racconta Lovecraft, non è infestata come le altre case di cui avete sentito parlare, avvisa l’autore nelle prime pagine del racconto. Insomma, niente rumore di catene, niente ululati…. Ma un’atmosfera marcescente e un senso di inquietudine crescente con orrori incomprensibili che si risvegliano, auree demoniache, esalazioni mefitiche, fluorescenze malaticce. E tenebre, tenebre oscure e angosciantissime, in cantina più che in soffitta e in altre zone della casa stregata.
Ne “La casa stregata”, Lovecraft introduce l’orrore che proviene dallo spazio infinito e dalle infinità di universi paralleli al nostro. Caposcuola incontestato del filone dell’orrore soprannaturale, Lovecraft fa risalire le radici della sua narrativa alle angosce e agli incubi più oscuri dell’animo umano. E la sua maestria sta proprio nell’abilità a risollevare le paure ancestrali dell’uomo e dar loro nuova linfa.
Visto che non voglio raccontarvi nulla della storia, vi dico perché ho scelto questa edizione. Intanto costa pochissimo e in tempi di spending review non è poco (visto soprattutto – ormai lo sapete – che io non leggo e-book). Poi c’è un’interessante biografia commentata dell’autore e, considerato il fatto che il racconto è ambientato nel paese natale dell’autore, mi è sembrata cosa non da poco. Che sia verità o costruzione romanzata, alla fine della fiera, poco importa perché Lovecraft padroneggia la materia horror come pochi altri sanno fare.
Dalla sua biografia ho appreso di una “voce” che corre su Lovecraft: pare, infatti, che questi fosse affiliato a una setta occulta, ma che sia verità o leggenda – anche in questo caso – non conta molto. Certo è che Lovecraf riesce a spalancare le porte dell’incubo e a richiuderle immediatamente dopo alle vostre spalle, lasciandovi al buio nell’angoscia.
Piccola pausa di riflessione terminologica. Scrivendo questo post, mi sono fermata a riflettere su quale sia il termine più appropriato per indicare il rumore delle catene… E non me ne veniva in mente neanche uno a parte “stridore“. Ma questo non andava bene perché non si trattava solo di rendere il rumore che le catene fanno strisciando, ma anche il “clang clang” che fanno quando vengono sbattute. Allora, M dice: «Magari è “clangore”!». Ma “clangore” è lo squillo altisonante della tromba… Mmm… Cerco su internet: niente. Ma il dizionario Treccani on line mi ha salvato la vita. E ho scoperto così che esistono tantissimi nomi per chiamare questo rumore: “scatenacciare”, “cubìa”, “escubìa” (di dannunziana memoria), “scatenio” e “dirugginio”. Mi sono fatta una cultura in materia. Ora posso scrivere un horror pieno di fantasmi che fanno clangclangare le loro catene 😛
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